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martedì 5 febbraio 2013

Le campagne di tutti

Di Marco Bersani

È quasi disarmante prendere la parola di fronte a una campagna elettorale che, rimosso il terremoto sociale creato dalle politiche di austerità, viene giocata, ancora una volta, e senza soluzione di continuità, sul risiko dei nomi e delle alleanze nel futuro scacchiere istituzionale. Nessuna riflessione sulla crisi verticale della democrazia rappresentativa, ma solo ossessivi appelli a un voto, definito, di volta in volta, «utile», «decisivo», perfino «storico». E altrettanti richiami, in ogni discorso, nelle candidature e perfino nei nomi dei partiti, a una fantomatica società civile, la cui sola evocazione dovrebbe colmare la distanza che, ormai da decenni, separa il quadro politico-istituzionale dalla vita reale delle persone.

E se una destra, ormai terremotata dalla fine del blocco sociale che l’ha sostenuta per un ventennio, si arrabatta come può – ovvero nel peggiore dei modi – per difendere posizioni ormai irrimediabilmente perse, lo scenario complessivo non sembra possedere neppure una lontana intuizione di come governare un paese immerso nella crisi, i cui risvolti più drammatici sono purtroppo ancora in arrivo. L’accettazione totale e senza condizioni dei vincoli liberisti dell’Unione Europea, la reiterazione di una lettura della crisi del debito direttamente trasposta dalle analisi delle lobbies finanziarie e bancarie, il mantra dell’austerità per dimostrare la credibilità del Paese davanti ai mercati, rendono praticamente inevitabile un governo di continuità con l’esecutivo precedente, e il balletto Monti-Bersani-Vendola solo un esercizio teatrale a uso della campagna elettorale.

E mentre il M5S si affaccia, portando con sé, assieme a qualche tentativo di innovazione, tutte le caratteristiche di un movimento prodotto dalla crisi (affidamento carismatico, propensione al tecnicismo e ambiguità di contenuti), la sinistra radicale mette in campo la coazione a ripetere schemi di rappresentanza che – al di là del superamento o meno del fatidico quorum – non farà avanzare la strada verso una democrazia più reale e permeabile.

Il percorso di Rivoluzione Civile non può tuttavia essere semplicisticamente letto solo come un prevalere dei cattivi partiti sui buoni movimenti, come diversi esponenti si affannano ad accreditare. Il difetto stava anche nel manico (Alba e Cambiare si può), ovvero nell’idea che bastasse un manifesto e alcune dichiarazioni sulla democrazia dal basso per costruire un processo nel quale i movimenti reali – peraltro mai coinvolti – si sarebbero automaticamente riconosciuti, la società avrebbe aderito in massa e il futuro avrebbe intrapreso un’altra direzione.
L’approdo a Ingroia, ovvero ancora una volta l’affidamento taumaturgico all’«uomo solo al comando», è il risultato non di ingenuità, ma di un’analisi sbagliata sulla realtà e le dinamiche dei movimenti sociali, ciò che ha permesso ai professionisti dei partiti di giocare in casa e puntare tutto sull’autoriproduzione di se stessi.

La distanza tra ciò che si muove nella sociètà e le forme attuali della rappresentanza persiste ormai da decenni ed è resa ancor più evidente allorquando la mobilitazione sociale riesce a irrompere nell’agenda politica del paese.
È successo, ad esempio, rispetto alla Tobin Tax. Presentata con 178.000 firme nel 2001, la legge d’iniziativa popolare, dopo essere stata sepolta nei cassetti delle commissioni parlamentari, è riuscita ad arrivare fino all’anticamera dell’aula parlamentare durante il governo Prodi nel 2007, per poi tornare nell’oblio. Oggi torna alla ribalta come Financial Transaction Tax e si avvia finalmente all’approvazione in sede europea, attraverso la «cooperazione rafforzata» fra undici paesi della Ue.
Ma il suo contenuto politico di controllo dei movimenti dei capitali finanziari, in Italia rischia di essere stravolto da una applicazione che prevede la quasi totale esclusione dei prodotti finanziari «derivati» e la destinazione del gettito alla riduzione del debito pubblico.

Il secondo esempio, decisamente più eclatante, riguarda sia la legge d’iniziativa popolare per l’acqua bene comune e la ripubblicizzazione del servizio idrico, presentata con 406.000 firme nel 2007, sia il referendum popolare sullo stesso tema del giugno 2011, vinto con il voto della maggioranza assoluta del popolo italiano. Una legge dimenticata e un esito referendario costantemente osteggiato a tutti i livelli istituzionali, in omaggio alle multinazionali e alle lobby dei capitali finanziari.
Sono entrambi esempi di come i movimenti abbiano costruito consapevolezza e mobilitazione sociale, sino a modificare dal basso l’agenda politica e a imporre temi di grande spessore per un’altra uscita dalla crisi e per il disegno di un altro modello sociale. Temi intorno ai quali la ricostruzione di una nuova permeabilità tra partecipazione dal basso e rappresentanza istituzionale può intraprendere un’inversione di rotta, eppure irrintracciabili nell’attuale dibattito politico-elettorale.

Se questa è la situazione del quadro politico, alcune brevi riflessioni non possono che riguardare anche il versante dei movimenti sociali. L’Italia continua a essere un paese tutt’altro che pacificato, bensì percorso da una vertenzialità aspra e diffusa, sia dentro il mondo del lavoro, sia, soprattutto, nelle campo delle più diverse conflittualità ambientali, sociali e territoriali. Una rete di esperienze che, tuttavia, fatica a porsi il problema di una ricomposizione reale che superi la reciproca solidarietà astratta e sappia costruire obiettivi comuni, in direzione dei quali intraprendere un percorso collettivo di riappropriazione reale dello spazio pubblico della democrazia, a livello locale e nazionale.
Si tratta di superare da una parte l’idea – tanto cara ai partiti tradizionali – di una società come espressione di esigenze che altri, sempre gli stessi, dovranno interpretare, portare a sintesi e rappresentare; dall’altra, di oltrepassare una sorta di illusoria idea di autosufficienza dei movimenti stessi. Ma per far ciò, occorre che ogni realtà in mobilitazione sociale, oltre a perseguire i propri obiettivi specifici, concorra a definire i nessi che legano ciascuna vertenza a tutte le altre, attraverso campagne che, lungi dall’immaginare una «reductio ad unum» delle diverse e plurali esperienze, aiutino tutte le realtà a risalire la corrente: dal conflitto a valle alla riappropriazione delle decisioni a monte. Dopo aver rotto, attraverso il paradigma dei beni comuni, l’ideologia del «privato è bello», occorre oggi scendere in campo per rompere l’accettazione fideistica dei vincoli posti dalle esigenze dei capitali finanziari e per riaprire a qualsiasi livello lo spazio pubblico della decisionalità collettiva.
Alcune realtà stanno provando a gettare il cuore oltre l’ostacolo: il Forum italiano dei movimenti per l’acqua (con l’ultima assemblea nazionale che si è svolta a Roma il 24-25 novembre scorsi) e il percorso avviato dal Comitato per una nuova finanza pubblica indicano – nella riappropriazione sociale della finanza, del credito e della ricchezza sociale da una parte e di nuovi spazi per la democrazia partecipativa dall’altra – i temi su cui lanciare campagne comuni a tutte le soggettività in lotta e provare a costruire una coalizione tra le «autonomie sociali» in movimento.

Un percorso che, se ben intrapreso, potrà finalmente affrontare, con i tempi della crescita biologica e senza la fertilizzazione artificiale della finalità elettoralistica, la questione della costruzione di una democrazia reale e della relazione tra democrazia partecipativa e forme, tempi e vincoli della sua rappresentanza

Fonte Il Manifesto 1/02/2013

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