STORIE DI PRIVATIZZAZIONI/2
di Sandro Medici
Non è passato neanche un anno e i tentativi di contrastare, fino ad
annullarli, i risultati del referendum sull'acqua pubblica si
susseguono. A cominciare dall'indecorosa omissione governativa sulla
quota d'investimento che continua a gravare sulle bollette. Ma la prova
generale del definitivo affossamento di quel voto popolare è in corso in
questi giorni a Roma. Dove un sindaco ormai impresentabile e con le
valigie in mano vuole piazzare sul mercato l'azienda municipale di
gestione idrica della capitale.
È in discussione in Campidoglio una
delibera che stabilisce la vendita del 21% del pacchetto azionario
comunale, attualmente al 51% dell'Acea che peraltro, con le sue
ramificazioni in Italia e all'estero, è la più importante del Paese.
Operazione che con sconcertante disinvoltura confinerebbe il Comune di
Roma a un ruolo di minoranza, lasciando che i privati raggiungano il
70%, dunque il pieno controllo dell'azienda. E così l'acqua che l'Acea
raccoglie nel cuore dell'Appennino centrale, tra le vallate umbre e gli
altopiani sabini, la stessa acqua che i romani imbrigliavano nelle
condotte e facevano scorrere nei maestosi acquedotti, ebbene,
quell'acqua, considerata tra le più pure e saporose d'Italia, non
sarebbe più risorsa naturale pubblica, ma prodotto da commercializzare e
distribuire a pagamento.
E chissenenfrega se più di 26 milioni di
italiani (1.200.000 a Roma) hanno detto il contrario, e cioè che l'acqua
è un bene comune inalienabile e indisponibile a essere trasformato in
merce. Difficile imbattersi in qualcosa di più sfacciato e sprezzante. È
un furto, un furto di democrazia. Ci si potrebbe chiedere: ma com'è
possibile che l'esito di un referendum, cioè uno dei provvedimenti di
legge più solenni perché direttamente emanato attraverso la volontà
popolare, non venga minimamente tenuto in considerazione, anzi
sbrigativamente contraddetto?
Il sindaco Alemanno fa sapere che le
casse comunali sono vuote e che se non si vende l'Acea, in autunno non
si potranno pagare stipendi e forniture. Si dichiara prigioniero
politico delle avverse circostanze finanziarie, vittima della stretta
sui trasferimenti agli enti locali. E con quello zelo che spesso connota
i mediocri, invece di protestare e ribellarsi, invece di provare a
piegare e manovrare meglio il pur esiguo bilancio, si allinea e
obbedisce.
È lo stesso governo che spinge Comuni, Province e Regioni a
vendere e piazzare tutto il patrimonio pubblico: non soltanto le
aziende di servizio, ma anche palazzi, castelli e immobili d'ogni tipo,
isole e bagnasciuga, caserme e poligoni, beni culturali e siti
archeologici, monti, valli, colline, campagne e perfino i nostri mari. È
Mario Monti in persona a insistere: con l'entusiasmo subalterno di chi
vuol diventare il primo della classe alla scuola di Francoforte. Una
politica sciagurata: massimizza i danni economici e azzera i vantaggi
sociali. S'impoverisce il Paese, cioè noi tutti e tutte, s'indebolisce
la funzione pubblica; solo così il capitale finanziario può finalmente
risollevarsi dalla sua crisi, libero di imperversare con le sue
scorribande speculative. È un processo che sembra inarrestabile, che
incontra cospicue complicità nei governi e nei parlamenti di mezza
Europa, a destra (ovviamente) ma anche (desolatamente) a sinistra.
Tranne qualche gastrite inquieta, qualche contrita cefalea.
A Roma
questo furore liquidatorio è perfino più brutale. I decreti del governo
fissano infatti al 2015 il limite entro cui procedere alle dismissioni
delle municipalizzate. Ma la destra romana ha invece deciso di
anticipare la stagione dei saldi: aziende comunali tutte all'asta. Si
comincia con l'Acea, poi toccherà all'Atac (trasporti) e infine all'Ama
(rifiuti). L'impressione tuttavia è che non sarà per niente facile
svendere l'acqua dei romani. In città cresce la consapevolezza e
cominciano a rianimarsi i tanti comitati referendari, così come le
associazioni ambientaliste e gli stessi partiti di sinistra. Si
annunciano diverse iniziative e anche qualche "sorpresa". In Campidoglio
ci si prepara a un confronto politico non proprio rituale, i Municipi
di sinistra si stanno organizzando. E sabato prossimo si torna in
piazza: giù le mani dal nasone.
Fonte Il Manifesto 26/04/2012
Nessun commento:
Posta un commento